Lettera di un padre di famiglia da lassù!!!
Ieri mattina mi sono alzato, ho infilato di corsa le scarpe da lavoro, ho fatto una colazione veloce e sono passato a salutare i miei due bimbi, Simone e Carlotta, rispettivamente di 7 e 9 anni. Un altro giorno in cantiere, il lavoro è duro, la paga di 1400 euro però mi è sufficiente per le vicissitudini mensili. Mia moglie dice che è tutta colpa di Eva, mangiò la mela e condannò l’umanità a dolori e sofferenze.
Prendo l’autobus che passa a circa cinquecento metri da casa, alle 6.30 e lo stesso al ritorno verso le 16.30. Vado a lavoro e so che tornerò con la consapevolezza di aver fatto il necessario per la mia famiglia, tornerò a casa felice e fiero.
Ricordo la mattina di ieri un po’ confuso. Ricordo bene il viso colmo di sonno delle mie due gioie, quello di mia moglie e la coda frenetica del mio cane. In cantiere ho salutato i miei colleghi, mi sono rimboccato le maniche e via a sgobbare.
I miei ricordi si fermano in un preciso momento; eravamo in tre, abbiamo assicurato una lunga corda intorno ad una tonnellata di tondini di ferro. Il braccio della gru su un paesaggio di nuvole si avvicinava. Il moschettone dondolava nel cielo; Carmine ridendo lo afferrò in modo buffo, come se quella fosse una liana dalla quale potesse per un attimo librarsi in volo. Il moschettone e la corda furono agganciati, io ridevo ancora per il gesto ridicolo di Carmine. Io ero l’unico che rideva. La gru tirò il carico; si sollevò rapidamente. Mi accorsi tardi che qualcosa era andato storto, solo quando vidi i miei colleghi che accorrevano verso il mio corpo che ahimè ormai aveva lasciato libera la sua anima.
Si caro Augias! Una mattina mi sono alzato per andare a lavoro e sono morto. I funerali sono forse stati più tristi della morte stessa. Un gruppetto di persone che dice addio ad un padre, uomo di 36 anni, morto per 1400 euro al mese. Morto per essere andato a lavoro.
Ma tutto ciò non mi preoccupa, va bene così, è andata e non si torna indietro.
Quassù ho incontrato dei ragazzi che sono morti anche loro svolgendo il loro lavoro, consapevoli però, a differenza mia, del rischio intrinseco, rischio economicamente ripagato. Erano felici a differenza mia, erano in terra morti come eroi, avevano avuto addirittura il funerale di stato con tanto di parata e di spari nel cielo.
Allora dov’è la differenza? La mia inconsapevolezza e la mia povertà, nello svolgere un lavoro che mi ha condotto alla morte, dovrebbero darmi il diritto se non addirittura la precedenza al tricolore sulla bara, il diritto di vedere mia moglie ed i miei figli ringraziati dalle massime autorità di quello stato che lascia inerme i suoi lavoratori morire sotto una tonnellata di ferro.
La differenza in realtà io la conosco, quassù l’ipocrisia non esiste, è la politica; la morte di un lavoratore non scuote gli animi, ma la morte di un soldato si, dà e toglie voti, bisogna gestirla nel modo migliore.
Giorgio
Prendo l’autobus che passa a circa cinquecento metri da casa, alle 6.30 e lo stesso al ritorno verso le 16.30. Vado a lavoro e so che tornerò con la consapevolezza di aver fatto il necessario per la mia famiglia, tornerò a casa felice e fiero.
Ricordo la mattina di ieri un po’ confuso. Ricordo bene il viso colmo di sonno delle mie due gioie, quello di mia moglie e la coda frenetica del mio cane. In cantiere ho salutato i miei colleghi, mi sono rimboccato le maniche e via a sgobbare.
I miei ricordi si fermano in un preciso momento; eravamo in tre, abbiamo assicurato una lunga corda intorno ad una tonnellata di tondini di ferro. Il braccio della gru su un paesaggio di nuvole si avvicinava. Il moschettone dondolava nel cielo; Carmine ridendo lo afferrò in modo buffo, come se quella fosse una liana dalla quale potesse per un attimo librarsi in volo. Il moschettone e la corda furono agganciati, io ridevo ancora per il gesto ridicolo di Carmine. Io ero l’unico che rideva. La gru tirò il carico; si sollevò rapidamente. Mi accorsi tardi che qualcosa era andato storto, solo quando vidi i miei colleghi che accorrevano verso il mio corpo che ahimè ormai aveva lasciato libera la sua anima.
Si caro Augias! Una mattina mi sono alzato per andare a lavoro e sono morto. I funerali sono forse stati più tristi della morte stessa. Un gruppetto di persone che dice addio ad un padre, uomo di 36 anni, morto per 1400 euro al mese. Morto per essere andato a lavoro.
Ma tutto ciò non mi preoccupa, va bene così, è andata e non si torna indietro.
Quassù ho incontrato dei ragazzi che sono morti anche loro svolgendo il loro lavoro, consapevoli però, a differenza mia, del rischio intrinseco, rischio economicamente ripagato. Erano felici a differenza mia, erano in terra morti come eroi, avevano avuto addirittura il funerale di stato con tanto di parata e di spari nel cielo.
Allora dov’è la differenza? La mia inconsapevolezza e la mia povertà, nello svolgere un lavoro che mi ha condotto alla morte, dovrebbero darmi il diritto se non addirittura la precedenza al tricolore sulla bara, il diritto di vedere mia moglie ed i miei figli ringraziati dalle massime autorità di quello stato che lascia inerme i suoi lavoratori morire sotto una tonnellata di ferro.
La differenza in realtà io la conosco, quassù l’ipocrisia non esiste, è la politica; la morte di un lavoratore non scuote gli animi, ma la morte di un soldato si, dà e toglie voti, bisogna gestirla nel modo migliore.
Giorgio
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